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CHIETI. Non è la singola immagine a raccontare la storia, ma l’insieme. Non il file isolato, ma la massa di dati che diventa prova. È in questa differenza che si è consumata la svolta di un’indagine partita nel silenzio della rete e approdata a un arresto reale e immediato.
Un uomo di 57 anni, residente a Chieti, si trova ora ai domiciliari con un’accusa pesantissima: detenzione di materiale pedopornografico.
L’operazione della polizia postale, che ha perquisito la sua abitazione, ha messo fine a un segreto custodito dietro password e hard disk. Gli agenti hanno sequestrato computer, smartphone e ogni dispositivo digitale, considerandoli potenziali depositi di un archivio che, secondo gli inquirenti, andrebbe ben oltre l’occasionale curiosità o l’errore.
Il caso entra nella sua fase giudiziaria. Davanti al giudice per le indagini preliminari, Enrico Colagreco, e con l’assistenza legale dell’avvocato Manuela D’Arcangelo, l’indagato dovrà scegliere se rompere il silenzio o restare muto. L’udienza di convalida dell’arresto rappresenta un punto di non ritorno: da un lato la possibilità di difendersi e fornire spiegazioni, dall’altro l’attesa, muta, del verdetto.
A rendere ancora più grave il quadro è la contestazione della procura della Repubblica di Chieti, che parla di “ingente quantità di materiale”. Non si tratta di una formula tecnica marginale: la Corte di Cassazione ha chiarito che tale aggravante scatta quando le immagini sono «numerose, rilevanti o di notevole consistenza». Superata quella soglia, l’accusa non riguarda più soltanto il possesso, ma la partecipazione – anche indiretta – a un mercato che sfrutta i minori.
In gioco non c’è quindi solo la colpa personale, ma il contributo a un sistema più ampio e oscuro. La norma di riferimento, l’articolo 600-quater del codice penale, prevede fino a tre anni di reclusione, ma la pena può aumentare sensibilmente in presenza dell’aggravante.
Ora tutto si concentra sui dispositivi sequestrati: i computer come “scatole nere”, i supporti digitali come testimoni silenziosi. Saranno le analisi forensi a dire se quell’archivio sia davvero la prova di un reato o il risultato di un equivoco tecnologico.
Ogni file, ogni traccia nascosta, ogni immagine cancellata potrà decidere il destino dell’uomo e la direzione di un processo che nasce nel buio della rete, ma si giudica alla luce del tribunale.